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Arte, Cultura e spettacolo (103)

Cross Video Days (2-4 ottobre, Parigi): open calls

Per il Centro Nazionale del Cortometraggio e il Torino Short Film Market comincia la collaborazione con i Cross Video Days, il principale evento di produzione e coproduzione per contenuti digitali in Europa, che si terrà a Parigi tra il 2 e il 4 ottobre 2017.

Sostenuto dal programma Europa creativa dal 2013, i Cross Video Days rappresentano un mercato unico nel suo genere, che consente a progetti digitali innovativi di trovare finanziamenti. Ogni anno i Cross Video Days organizzano centinaia di appuntamenti tra società di produzione e finanziatori: canali televisivi, piattaforme di distribuzione, editor digitali, fondi di sostegno, o fondi d’investimento tra i più riconosciuti a livello internazionale.

I bandi di Cross Video Days prevedono 4 categorie:

- Immersivi (VR / AR / 360° / Cinematic / Game)

- Interattivi (fiction o doc)

- Lineari. Uno dei mercati più attivi, prevede serie dedicate al mobile (10 per 10 minuti) e la presenza di società come Studio + e Black Pills.

- Multi piattaforme. Dedicato alle forme più diverse e creative, tra cui transmedia. Sono contenuti che possono circolare sul web, al cinema, in tv, sullo smartphone...

Questo anno, i Cross Video Days lanciano un opportunità unica per tutte le start-up nel VR/AR/360°/Cinematic/Game in Italia, poter incontrare in one-to-one meetings Fondi di finanziamento che vengono direttamente dalla Silicon Valley e anche da tutta l’Europa assieme ai più importanti business angels del settore.

I bandi sono aperti fino al 13 giugno

Per info:

www.crossvideodays.com

 

 

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MORTE DI UN UOMO FELICE – Giorgio Fontana

Ho imparato a conoscere e ad apprezzare Giorgio Fontana, prima ancora di leggere i suoi libri, ‎attraverso le parole di affetto e di stima che ha per lui Marco Missiroli, quando gli capita di recensire i suoi romanzi o quando, per esempio, in qualche intervista o dibattito pubblico gli viene chiesto quali sono gli scrittori italiani che preferisce. “Fontana e Ammaniti”, risponde. Come Missiroli, Giorgio Fontana appartiene a quella giovane e talentuosa generazione di romanzieri, della quale fanno parte tra gli altri: Culicchia, Vasta, Bajani, Cognetti, Ciabatti, Schiavone, Meacci, Vinci, Robecchi, che sembra avere definitivamente ammansito le voci più critiche e pessimistiche sulle sorti della letteratura moderna di questo paese, dopo gli ultimi fuochi di Calvino, Pasolini e Sciascia.

Nel 2014, a soli trentatré anni, Fontana pubblica il suo quinto romanzo Morte di un uomo felice e vince il premio Campiello. Il romanzo racconta la storia di un giovane magistrato, il trentasettenne Giacomo Colnaghi, che indaga sull’assassinio di un esponente in vista dell’ala più a destra della Democrazia cristiana, “un tipo volgare, odioso e colpevole”. Siamo a Milano, nell’estate del 1981. La stagione degli anni di piombo è entrata nella sua fase conclusiva, la più cruenta. Colnaghi è un uomo mite, molto cattolico “dovevi fare il prete, non il magistrato” gli ripete il collega Roberto Doni, “era talmente semplice, e come sempre aveva a che fare con il dolore: non con l’equità, o con qualche utopia, né con i piatti di un’ipotetica bilancia da pareggiare: alla fine si riduceva tutto solo e soltanto al dolore”, sposato con un’insegnante di inglese, Mirella, donna che ama ma con la quale non ha rapporti intimi da sette mesi “ il loro matrimonio ruotava attorno ad un nucleo di silenzio cristallino e rispettoso, che per Colnaghi era lo specchio di ciò che doveva essere un legame”.

Giacomo Colnaghi fuma la pipa e se ne va in giro per Milano in bici o in tram, senza scorta. Gli piace trattenersi la sera in qualche bar di periferia per bere un bicchiere di vino e ascoltare storie di ferrovieri e di operai, o fare un salto nella libreria del caro amico Mario. La storia di Colnaghi si intreccia a quella di suo padre Ernesto, un operaio partigiano ucciso barbaramente dai fascisti quando Giacomo aveva solo pochi mesi. Fontana la scrive in corsivo, alternando le due vicende tra un capitolo e l’altro del libro.

I due Colnaghi si somigliano molto, le loro brevi esistenze sembrano legarsi e ritrovarsi, oltre che nello stesso tragico destino, nei medesimi ideali di giustizia e di solidarietà che l’umile operaio insegue attraverso la Resistenza, e il sostituto procuratore lottando contro l’eversione e la ferocia delle Brigate rosse.

Nelle note finali, Fontana scrive che per tratteggiare il personaggio di Giacomo Colnaghi si è ispirato alle figure di altri due magistrati assassinati: Emilio Alessandrini e Guido Galli. Leggendo il romanzo, io ho invece ritrovato nell’esperienza umana e professionale del protagonista le storie di Luigi Calabresi e di Giorgio Ambrosoli, eroi diversi ed uguali di una borghesia piccola, invisibile ed operosa alla quale questo libro vuole essere un generoso e commovente tributo. Per stoicismo, bontà d’animo e integrità morale, i due Colnaghi somigliano molto anche ai personaggi dei romanzi di Malamud, uomini spesso travagliati, perseguitati dalla malasorte, che combattono il male e le ingiustizie arroccandosi nella propria fede e nella rettitudine.

Morte di un uomo felice è una profonda riflessione sulla giustizia e sui suoi limiti. Un libro emozionante, scritto con uno stile sobrio, garbato e scorrevole che ci riporta ai classici della grande letteratura italiana del Novecento.

Angelo Cennamo

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LA GIOSTRA DEI CRICETI – Antonio Manzini

Antonio Manzini lo conosciamo bene: sceneggiatore e scrittore di romanzi gialli che nelle classifiche dei libri più venduti gareggiano ormai alla pari coi racconti siculi del maestro Camilleri, con i Bastardi di Pizzofalcone di De Giovanni, con la Milano da bere di Robecchi, e con i romanzi di altri specialisti di un genere, il noir, che da parecchi anni sta monopolizzando o quasi il mercato della narrativa italiana. Sellerio ha da poco ripubblicato un suo vecchio romanzo, edito la prima volta da Einaudi nel 2007, intitolato La giostra dei criceti. Siamo quasi agli esordi, Manzini non ha ancora dato alle stampe i primi capitoli della fortunata saga del vicequestore Rocco Schiavone, ma nella sua prosa asciutta, disadorna, cruda, ritmata, già si intravedono i primi bagliori di quell’ironia malinconica, quell’amaro disincanto che caratterizza la sua scrittura, e che ritroveremo anche nei libri successivi, quelli della definitiva consacrazione.

 La giostra dei criceti è la storia di una rapina organizzata da quattro amici di una periferia romana, una rapina sgangherata e finita male, anzi malissimo. René, Cencio, Franco e Cinese sembrano personaggi usciti dalle pagine di un romanzo di Pasolini, sono ragazzi di vita, la cellula malavitosa, improvvisata e sprovveduta di una gioventù marcia e senza speranza, che sopravvive ai margini di una società arida di valori e di senso della legalità. Il romanzo criminale dei quattro amici-nemici, nonostante tutto molto divertente e con dialoghi scritti in romanesco, va ad intrecciarsi a quello di un’organizzazione di alti vertici dello Stato – un dirigente dell’Inps, un ministro, un generale dell’esercito, burocrati e impiegati senza scrupoli  – che lavora in gran segreto ad un piano folle e surreale denominato “Anno Zero”. Un’operazione complessa e ben congegnata che punta a risolvere il problema delle pensioni alla radice: eliminando fisicamente i pensionati. Le due trame parallele, attraverso la narrazione magistrale di Manzini, danno corpo ad un romanzo tragicomico, veloce, avvincente e carico di suspance. Un libro pessimista, senza un lieto fine, lo spaccato di una società degradata e priva di sentimenti, di un’umanità insulsa, oscena e brutale “Siamo carne da cannone, aveva detto René. Era vero. Carne da cannone. Gente che muore senza un senso, senza un’utilità. Che ha vissuto senza sapere, e senza sapere se ne va“.

Manzini possiede il pregio degli scrittori di razza: sa coniugare l’alto con il basso, la poesia con la leggerezza, il dramma con la farsa. Manzini piace a tutti, scrive bene e vende tanti libri. Non è forse questo il sogno di ogni romanziere?

Angelo Cennamo

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LEVIATANO – Paul Auster

“Sei giorni fa un uomo si è fatto saltare in aria sul ciglio di una strada del Wisconsin del nord. Non ci sono testimoni, ma pare che fosse seduto sull’erba accanto alla macchina intento a costruire una bomba, quando questa gli è esplosa ‎fra le mani per sbaglio. Secondo i referti dei medici legali che sono stati appena diramati, l’uomo è morto sul colpo”.

L’incipit di Leviatano – romanzo di Paul Auster uscito nel 1992 e pubblicato in Italia dalla Einaudi  –  è di quelli che non si dimenticano. Un pugno nello stomaco che lascia il lettore senza fiato, attonito e incollato al libro nell’attesa di capirci di più. La vittima dell’esplosione è Benjamin Sachs: uno scrittore di successo, dal vissuto turbolento e avventuroso. Il primo a scoprire la sua identità è l’amico e collega Peter Aaron, il quale, dopo aver appreso la tragica notizia, decide di ricostruire, passo dopo passo, gli ultimi anni di quella vita sbandata, convulsa e misteriosa, che lui solo conosce. Ben e Peter sono legati da una lunga amicizia nata per caso in un gelido inverno dentro un bar di New York. La scena del loro primo incontro è un gioiello di tecnica narrativa, forse la parte più interessante dell’intero romanzo. In quel tempo lui e Ben sono due giovani scrittori spiantati in cerca di gloria, due sognatori come ne incontriamo tanti nella letteratura americana, dall’Arturo Bandini di Fante al “disperato, erotico, stomp”  Bukowski. Storie parallele che mano mano finiscono per intrecciarsi pericolosamente oltre il dovuto, oltre la soglia dell’adulterio della moglie di Ben, e oltre il naturale rifiuto della crudeltà. Il rapporto che lega Ben a Peter sembra impossibile da scalfire, nonostante tutto.

Leviatano è il titolo che Sachs ha scelto per il romanzo che ha iniziato a scrivere in una baracca del Vermont, lontano dal mondo, dal suo mondo, dopo una brutta convalescenza che lo ha trasformato, cambiato dentro, al punto da spingerlo a rimettere in discussione gli affetti più cari e le proprie ambizioni di scrittore. Il libro finirà per scriverlo Peter, l’unico depositario di una verità difficile da spiegare e forse poco credibile.

Leviatano è un libro ambizioso e intrigante –  ahimè con poca ironia – che affronta i temi del tradimento e del fallimento. Ma è soprattutto una carambola di eventi – incontri, incidenti, romanzi scritti e romanzi mai finiti – del tutto imprevedibili, governati unicamente dal caso. La vita di ciascuno è in totale balia del caso, scrive Paul Auster sulla copertina. E’ la cifra, questa, di tutta la sua produzione letteraria e questo libro non fa eccezione. L’impressione però è che questa volta Auster abbia voluto esagerare: la lunga sequenza di eventi fortunosi che sovrasta la storia di Benjamin, la ricerca affannosa, quasi maniacale, della “strana combinazione” che deve per forza legare ogni step della trama, finisce infatti per ostacolare quel naturale processo di compenetrazione tra lettore e personaggio che rende la narrazione più intrigante, e per allontanare la storia da una realtà possibile e ripetibile. L’eccesso di zelo, o forse l’azzardo, che separa un buon romanzo dal capolavoro.

Angelo Cennamo

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22.11.63 – Stephen King

Nel suo saggio, interessantissimo, sulla narrativa americana ( AmericanaMinimumfax editore)  – Luca Briasco divide gli scrittori in due categorie: gli status author – gli autori  che scrivono seguendo il proprio istinto, senza tenere conto delle mode e delle tendenze del momento – e i contract author,‎ quelli più attenti al marketing, che con i lettori stipulano un patto per assecondarne gusti e preferenze. Mi è venuta in mente questa distinzione, che Briasco nel suo libro formula per spiegare il dualismo tra Jonathan Franzen e David Foster Wallace, mentre leggevo uno dei romanzi più apprezzati di uno scrittore americano che, per chissà quale ragione, sbagliata, parte della critica continua a considerare minore rispetto alla nobile nomenclatura da Pulitzer. Lo scrittore è Stephen King, il romanzo è 22.11.63. Nella sua lunga carriera King di romanzi ne ha pubblicati più di 50, vendendo oltre 500 milioni di copie in tutto il mondo. Sono numeri impressionanti che non collimano probabilmente con l’idea e con la personalità del romanziere d’avanguardia, lo sperimentalista, lo status author esemplificato da Briasco nel suo manuale. King non ha la scrittura colta e rigogliosa di Philip Roth, né lo spessore filosofico di Don DeLillo, o l’introspezione romantica di Carol Joyce Oates; la sua prosa è ruvida come la moquette di un hotel fuori stagione, aspra come un sorso di whisky che ti brucia nella gola. King tuttavia possiede una qualità rara: sa evocare atmosfere e ambientazioni, talvolta surreali, che solo il  cinema riesce riprodurre con la stessa fedeltà e verosimiglianza. Non è un caso che dai suoi romanzi siano stati tratti diversi film di successo: It, Cujo, Il miglio verde, Shining, Le ali della libertà, Misery.

King è un costruttore di suspance più che di parole; le sue trame ipnotizzano i lettori alimentando una misteriosa empatia con l’autore. È l’empatia la cifra di King. Quella capacità fuori dal comune di sorprendere, turbare e incuriosire fino allo spasimo. Le sue storie sono squarci spazio-temporali che si rincorrono in un dedalo di suggestioni vibranti, l’apoteosi di un’immaginazione sempre fervida e inesauribile. King confeziona sogni. E quanti si  ostinano a considerare i suoi romanzi un sottoprodotto della cultura di massa, un intrattenimento leggero, farebbero bene a riflettere sulla complessità del mosaico che è al centro di ogni buona narrazione, oltre che sulla bellezza intrinseca della scrittura, importante sì, ma non sufficiente a fare di uno scrittore un grande scrittore. Non si può  conoscere a fondo l’America e la letteratura americana senza aver letto i romanzi di Stephen King, senza aver conosciuto quel suo modo favolistico di raccontare i nostri lati oscuri, il brivido dell’imprevisto, e quella sensazione di precarietà che non ci abbandona mai.

22.11.63 esce nel 2011. Non è uno dei soliti romanzi diabolici ai quali King ha abituato i suoi fan. Il libro racconta la storia di un tranquillo professore di inglese che insegna in un liceo di una cittadina del Maine. Il suo nome è Jake Epping, ma ve ne dimenticherete presto perché il protagonista, per le ragioni che spiegherò più avanti, assumerà fin da subito un’altra identità. Un giorno di inizio estate, infatti, Jake viene a conoscenza di un segreto che ha dell’incredibile. A rivelarglielo è Al, il gestore della tavola calda dove lui si trattiene spesso a pranzo con i colleghi del liceo. La dispensa del ristorante di Al nasconde un varco che conduce nel passato  “la buca del coniglio“. Pochi passi su una scala immaginaria e chi la percorre si ritrova nel 1958.

Non importa quante volte l’attraverserai: uscirai sempre sul piazzale di una fabbrica tessile di Lisbon Falls, ore 11.58 del 9 settembre 1958. E non importa quanto a lungo resti in quel passato: al ritorno, nel tuo presente saranno trascorsi due minuti. Sempre due minuti“. Jake è incredulo, ovviamente frastornato. Ma è qui che la storia entra nel vivo: Al chiede al suo amico di compiere una missione impossibile “Se mai hai voluto cambiare il mondo, questa è la tua occasione. Salva Kennedy. Salva suo fratello. Salva Martin Luther King. Ferma le rivolte razziali. E forse fermerai anche la guerra in Vietnam“. Il vecchio chef ci aveva già provato prima che il cancro consumasse le sue ultime forze e il tempo necessario per sopravvivere fino a quella tragica giornata di novembre, quando lo sconosciuto, fino ad allora, Lee Oswald mirò alla testa di JFK.
Jake accetta la sfida. Prende i risparmi di Al, i quaderni con gli appunti che il suo amico moribondo ha raccolto nelle precedenti incursioni oltre la buca, una patente falsa intestata ad un tale George Amberson, e parte per la sua seconda vita come un alieno per una galassia sconosciuta. “Ma il passato è inflessibile. Non vuole essere cambiato”.

22.11.63 è un romanzo lungo ed estenuante, con un impianto narrativo solido, ben strutturato, che si rifà alla tradizione popolare ottocentesca-dickensiana, e che ruota intorno a due vicende parallele: il drammatico attentato a John Kennedy, e la storia d’amore, molto commovente, tra il protagonista e una donna che non riesce a liberarsi dai fantasmi del suo passato. Un libro ricco di colpi di scena che ci spalanca gli occhi sul falso mito dell’irreversibile, scritto con leggerezza ed ironia da un maestro della letteratura contemporanea. Un viaggio folgorante, dal New England al Texas, attraverso la musica, i colori e i paesaggi dell’America rurale, bigotta e razzista degli anni ’60. Una sequela infinita di incontri e di misteriosi déjà-vu, con tanti personaggi, così uguali e così diversi, protagonisti e comparse insieme nel gigantesco affresco che King dipinge per rappresentare sentimenti e miserie di un’umanità sospesa nel tempo. L’amore, la morte, il destino.

Angelo Cennamo

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Bologna Children’s Book Fair 2017

Nella globalità delle notizie riguardanti il mondo della lettura, il dato Istat che emerge dalle ultime statistiche a riguardo  è che il 60% degli italiani non legge, negli ultimi sei anni si sono persi 3 milioni e 300 mila lettori nel Paese. Agghiacciante è il fattore dell’analfabetismo di ritorno, la lettura è condizionata dalla capacità di comprendere ed interpretare in modo adeguato il significato di testi scritti, per farlo c’è bisogno di una competenza di base cruciale per garantire una effettiva capacità di utilizzo e valutazione delle informazioni. Questa capacità, la cosiddetta «literacy», è molto bassa nella popolazione adulta in Italia, molto più bassa della media Ocse. Quindi, che il titolo di studio sia cresciuto non è stato sufficiente. Seppure i dati sui lettori dipingano uno scenario triste, quelli sulla BCBF la fiera dell’editoria per bambini e ragazzi a Bologna, giunta alla 54esima edizione, conclusasi il 6 aprile, confermano la leadership mondiale della Fiera nel settore kids and young, grande evento di mercato e appuntamento culturale immancabile per fare il punto sullo stato dell’arte dell’illustrazione e per anticipare le tendenze in campo dell’illustrazione e della letteratura, di pagine e di digitale.
Bologna Children’s Book Fair 2017, dal 3-6 aprile nei padiglioni di Bologna Fiere, ha ospitato 1300 espositori provenienti da 75 paesi.  Successo straordinario di visitatori, confermato dai numeri ancora una volta in crescita: oltre 26.743 visitatori, di cui 11.752 esteri.  Annunciata martedì 4 aprile la nuova manifestazione dedicata allo scambio e alla commercializzazione dei diritti d'autore in ambito editoriale, a livello internazionale: dal 30 maggio al 1° giugno 2018 Bologna Fiere arriverà a New York con un appuntamento che sarà un'occasione di incontro tra editori e agenti americani con i loro colleghi di tutto il mondo e vedrà la partecipazione di librai e bibliotecari. La peculiarità della fiera è certamente quella di riunire tanti ambiti legati al mondo dell’editoria, le giornate sono suddivise da momenti che vedono gli editori impegnati in portfolio review con gli illustratori di tutto il mondo, allo scambio dei diritti editoriali, a workshop, conferenze e mostre. Diverse aree presenti oltre gli stand degli editori e delle agenzie di diritti: il Bologna Digital Media (alla sua seconda edizione), dove l’editoria incontra l’innovazione e i contenuti per ragazzi trovano la propria articolazione multimediale, con la realtà aumentata tema dell’edizione 2017 insieme all’illustrazione digitale, o i Caffè, per gli autori, gli illustratori, i traduttori e il digital cafè, luoghi in cui dibattere, incontrarsi, scambiare e apprendere, il The Illustrators survival corner, spazio professionale dedicato agli illustratori per condividere dubbi e chiedere aiuto e chiarimenti gratuitamente ai professionisti del settore. Altro spazio fondamentale è quello dedicato alle mostre: nata nel 1967 quella degli illustratori, vede per l’edizione 2017 selezionate 375 tavole di 75 talenti editi ed inediti, provenienti da 26 Paesi, rappresentativi di culture, sensibilità e stili diversissimi, raccolti nel famoso Annual illustratori, edito da Corraini Edizioni e collettore delle nuove tendenze dell’illustrazione mondiale. Non meno interessante, quella sul Pop-up dal titolo “Pop-up show: la magia dentro i libri” che racconta, attraverso le pagine esposte, i cambiamenti, l’evoluzione delle costruzioni tridimensionali nel tempo e le innovazioni che hanno reso sempre più complesse e affascinanti queste sculture di carta.
La sezione Premi, conferma Bologna Children’s Book Fair 2017 come palcoscenico dei Premi Internazionali per l’editoria giovanile: innanzitutto il BOPBologna Prize for the Best Children’s Publishers of the Year, che premia gli editori internazionali, il Bologna Ragazzi Digital Awards, che premia le migliori creazioni dell’editoria digitale, il Premio Internazionale dell’illustrazione che sostiene i nuovi talenti e infine ilPremio Strega (seconda edizione) per ragazzi e ragazze, delle fasce di età  6-10 e 11-15 anni.  BCBF, diviene un momento fondamentale per comprendere da parte degli illustratori quella che è la domanda da  parte dell’editoria internazionale, rivolta ai nuovi autori, di sicuro molto attenta alle nuove tematiche come quelle della laicità, dell’uguaglianza, della condivisione, del confronto, della diversità, e di quelle adolescenziali, della sostenibilità intesa anche come alimentazione sostenibile, o con la riedizione corredata da nuove illustrazioni dei grandi classici della letteratura come l’Odissea,  Pinocchio o le favole di Italo Calvino, solo per citarne alcuni.  Seppure in piena epoca digitale, ciò che si evince dalla domanda degli editori e dei loro art-director, è che la matericità e la naturalezza della tecnica manuale, dopo il boom e l’entusiasmo iniziale della tecnica digitale, è ora tanto agognata, certo non disprezzando la velocità del lavoro dovuta alle nuove tecnologie, così come pretende il mercato.
Per quanto riguarda lo stile, Bologna mostra una miriade di tecniche e stili differenti, da quella  proveniente dall’ambiente della progettazione grafica, a quella più pittorica, alla tecnica mista che cerca di unire il classico al contemporaneo, di certo in un epoca in cui tutto si è già visto, detto, costruito e inventato, quello che rimane è trovare il modo più originale di riproporsi. Forse è stato anche questo il criterio di selezione che ha visto l’illustratore spagnolo Manuel Marsol, vincere l’edizione 2017 del premio Internazionale dell’illustrazione.La giuria di esperti che si è occupata del premio – composta da Rotraut Susanne Berner (Germania), Maria Jesús Gil (Spagna), Lorenzo Mattotti (Italia) – ha motivato così la scelta:
La sua opera, di grande originalità e di elevata qualità tecnica, ha una voce indipendente e fuori tendenza, qualità estremamente rara da incontrare. Attraverso un linguaggio fortemente simbolico, l’autore ci presenta immagini piene di forza che risvegliano nel lettore la curiosità di scoprire il resto della storia, di sapere cosa succederà dopo. Con uno stile fortemente narrativo, e al tempo stesso personale, ironico e poetico, l’autore impiega con maestria diverse tecniche, e tale versatilità arricchisce le sue opere che, pur mantenendo la propria essenza pittorica, possiedono una qualità grafica molto personale
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Valeriano Forte
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Mercoledì 26 ottobre 2016, Teatro Nuovo di Napoli Isa Danieli in Serata d’amore regia Manlio Santanelli

Il palcoscenico partenopeo inaugurerà la stagione teatrale con un omaggio devoto e accorato ad Annibale Ruccello, nel trentennale della sua scomparsa.
 

Saranno cinque serate speciali a inaugurare, mercoledì 26 ottobre 2016 alle ore 21.00, la stagione teatrale 2016/2017 del Teatro Nuovo di Napoli, affidate a Isa Danieli in Serata d’amore per la regia di Manlio Santanelli, che ne è autore con la straordinaria interprete per la quale fu scritto quello che di Ruccello è considerato il capolavoro, Ferdinando, amara metafora sulla beffa dell’unità d’Italia.

Presentato da Ente Teatro Cronaca Vesuvioteatro, Serata d’amore è l’omaggio devoto e accorato di Isa Danieli e Manlio Santanelli ad Annibale Ruccello, nel trentennale della sua scomparsa, che prenderà vita proprio su quel palcoscenico dove l’autore stabiese visse i suoi giorni migliori.

E’ un viaggio dentro il suo teatro, un percorso alla rovescia dalla sua ultima commedia alla prima, che lega in un unico evento le voci femminili del suo cosmo poetico: dall'indimenticabile Donna Clotilde di Ferdinando, all'inquieta Ida di Week End, alla terribile Jennifer. Una sfilata di personaggi segnati da una disperata solitudine, quel prezzo che deve pagare chi ama o anche chi soltanto dispone ad amare.

Serata d’amore - commenta Isa Danieli - è la ripresa di uno spettacolo che portai in scena un anno dopo la morte di Annibale, per perpetrare il suo ricordo di uomo e di artista, dopo quel maledetto 12 settembre del 1986. Il titolo non poteva essere diverso da questo, così come non poteva esserci altro teatro all'infuori del Nuovo, per riproporlo”.

L'opera di un grande commediografo mal si presta a essere limitata, anche soltanto in fase di interpretazione, ad un unico concetto generale che possa valere per ogni testo di cui quell'opera si compone. Limitare, in tal caso, equivarrebbe a ridurre. Ancor meno, si presta ad essere esplorata, ad essere penetrata nel suo mistero di fondo.

Ciò vale ancora di più se riferito all'intera produzione di Annibale Ruccello che, per l'indubbia capacità di raccogliere, dalle silenziose esplosioni del quotidiano, la più piccola scheggia, il minimo frammento che ne rievochi con struggente amarezza la perduta integrità, si sottrae, caparbiamente, all'utilizzo di singole chiavi di lettura.

E tuttavia, leggendo e rileggendo le commedie di Ruccello in vista della messa in scena di questa Serata d’amore, la Danieli e Santanelli hanno sempre incontrato un tema che, seppure in forma sempre diversa, ricorre con ossessiva puntualità: la solitudine.

“È un tuffo nel passato - aggiunge Manlio Santanelli, che dirige il lavoro così come allora - in cui, rispetto alle classiche antologie, facciamo il percorso inverso, partendo dal titolo più recente, Ferdinando, e risalendo, attraverso Weekend, fino alle Cinque rose di Jennifer”.

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San Matteo sul Gargano

Martedì, 20 settembre 2016, alle ore 20.00, nel Santuario di San Matteo Apostolo in San Marco in Lamis, sarà proiettato il film “San Matteo sul Gargano” di Angelo Disanto, alla presenza di Padre Gaetano Jacobucci, ofm, Rettore del Santuario. L’opera è il risultato di un lungo lavoro di ricerca sul campo, compiuto dal Dott. Disanto, storico e antropologo, membro dell’Associazione Italiana per lo studio della Santità, dei Culti e dell’Agiografia, e del Centro Ricerche di Storia Religiosa in Puglia, autore del volume “San Matteo Apostolo. Culto e pellegrinaggi al Santuario sul Gargano”.
In particolare il film consiste nel presentare la processione in onore del Santo che si svolge ogni anno il 21 settembre, tra il Santuario e Borgo Celano.
Il film documenta uno spazio sacro e un rito collettivo, testimonianza ineludibile di un percorso identitario di devozione, che affonda le sue radici in modo particolare nella cultura del popolo di Cerignola.
Tra gli altri spunti, il lavoro presenta le riflessioni del noto sociologo Prof. Roberto Cipriani (Università Roma Tre), di S.E. Mons. Vincenzo Pelvi (Arcivescovo di Foggia-Bovino) e di Padre Mario Villani, ofm (Santuario di San Matteo). Ci sono inoltre altri autorevoli interventi sull’argomento. Interessante è la profonda partecipazione dei pellegrini, in gran parte cerignolani, esplicitata con canti tradizionali, in una ritualità antica fatta di ritmo e musicalità, con voci soliste e coro. C’è un fatto caratteristico: i cantori che precedono il quadro del Santo camminano all’indietro, in modo da rivolgere sempre lo sguardo verso l’immagine recata a spalle da devoti cerignolani.

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Denuncia contro violenza e omofobia domestica nel nuovo video delle Calypso Chaos

Nel nuovo singolo “Chi Non Dice l’Amore” della band femminile Calypso Chaos si racconta una storia scomoda e purtroppo sempre più attuale di violenza e omofobia domestica. L’attrice Elisabetta De Vito,candidata ai David di Donatello per il film “Non Essere Cattivo” è la protagonista del nuovo videoclip

Roma, 23 agosto 2016 – Le Calypso Chaos, band tutta al femminile, debuttano con il singolo “Chi Non Dice l’Amore” e scelgono un cast d’eccezione per il proprio videoclip. L’attrice Elisabetta De Vito, che ha vestito i panni della madre di Luca Marinelli alias Cesare, nel film “Non Essere Cattivo” di Claudio Caligari, anche stavolta si cimenta con un personaggio complesso e sorprendente: una donna ormai adulta che si ritrova a fare i conti con il proprio passato, figlio di scelte sbagliate condizionate dalla presenza morbosa e violenta del padre (interpretato dall’attore Ciro Scalera), il quale le ha proibito di vivere liberamente la vita che avrebbe voluto.

Laura Avallone, cantante e front woman delle Calypso Chaos, alle prese per la prima volta con la sceneggiatura di un videoclip ha infatti dichiarato: “La discriminazione vera, quella più pericolosa, inizia e spesso trova il suo più basso e violento compimento tra le mura di casa, nell’ambiente che dovrebbe proteggerci dall’esterno, quando le mani di chi dice di amarci sono le stesse che ci rovinano la vita.”                                                                

Un punto di vista schietto e disincantato quindi, un’accusa senza mezzi termini alla famiglia tradizionale che se nell’immaginario collettivo rappresenta ancora l’unica alcova perfetta all’interno della quale crescere figli, in realtà, come ci testimoniano i fatti di cronaca più recenti, è spesso teatro di violenze quotidiane e di discriminazioni, soprattutto quando i figli non rispettano le aspettative dei genitori.

“Questo video è dedicato alle migliaia di donne che tutti i giorni subiscono violenze familiari a causa delle proprie scelte o delle proprie diversità”, ha proseguito Laura Avallone: “Nel caso specifico raccontiamo la storia di una ragazza innamorata di una sua collega di Università con la quale non può vivere liberamente la propria storia d’amore a causa dell’ingerenza violenta del padre, arrivando persino a sposarsi pur di compiacerlo”.

Un ritratto purtroppo realistico e disincantato, che obbliga lo spettatore ad una riflessione profonda su uno degli stereotipi più radicati della nostra società.

“E’ chiaro che non vogliamo fare di tutta un’erba un fascio, non tutte le famiglie sono così, ma purtroppo il numero di uxoricidi, di violenze sessuali e i casi di stalking che popolano l’attuale cronaca, stanno crescendo in maniera preoccupante. Le donne e gli omosessuali in particolare sono ad oggi le categorie più colpite da atteggiamenti discriminatori a partire dalle mura di casa fino all’ambiente lavorativo, e non è raro che in alcuni casi si sia arrivati al suicidio. Come donne e come artiste, ci siamo sentite in dovere di porre l’accento su questa questione, nella speranza che la nostra canzone e il nostro video siano di ispirazione per quanti vogliano riappropriarsi della propria vita perché non è mai troppo tardi per essere felici” ha concluso la cantante delle Calypso Chaos.

Prodotto in collaborazione con Fabrizio Federighi, storico produttore della Bandabardò, per la neonata etichetta indipendente Deep Side Music, “Chi Non Dice l’Amore” è il singolo che anticipa l’album delle Calypso Chaos in uscita a fine 2016, album che promette sorprese e spunti di riflessione da prospettive insolite, atteggiamento tipico di queste quattro musiciste romane che sembrano proprio non aver timore diribaltare gli stereotipi e di affrontare a viso aperto le contraddizioni dell’attuale mercato discografico  “pop mainstream”.

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