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Io leggo (30)

Io leggo, rubrica di letteratura

MORTE DI UN UOMO FELICE – Giorgio Fontana

Ho imparato a conoscere e ad apprezzare Giorgio Fontana, prima ancora di leggere i suoi libri, ‎attraverso le parole di affetto e di stima che ha per lui Marco Missiroli, quando gli capita di recensire i suoi romanzi o quando, per esempio, in qualche intervista o dibattito pubblico gli viene chiesto quali sono gli scrittori italiani che preferisce. “Fontana e Ammaniti”, risponde. Come Missiroli, Giorgio Fontana appartiene a quella giovane e talentuosa generazione di romanzieri, della quale fanno parte tra gli altri: Culicchia, Vasta, Bajani, Cognetti, Ciabatti, Schiavone, Meacci, Vinci, Robecchi, che sembra avere definitivamente ammansito le voci più critiche e pessimistiche sulle sorti della letteratura moderna di questo paese, dopo gli ultimi fuochi di Calvino, Pasolini e Sciascia.

Nel 2014, a soli trentatré anni, Fontana pubblica il suo quinto romanzo Morte di un uomo felice e vince il premio Campiello. Il romanzo racconta la storia di un giovane magistrato, il trentasettenne Giacomo Colnaghi, che indaga sull’assassinio di un esponente in vista dell’ala più a destra della Democrazia cristiana, “un tipo volgare, odioso e colpevole”. Siamo a Milano, nell’estate del 1981. La stagione degli anni di piombo è entrata nella sua fase conclusiva, la più cruenta. Colnaghi è un uomo mite, molto cattolico “dovevi fare il prete, non il magistrato” gli ripete il collega Roberto Doni, “era talmente semplice, e come sempre aveva a che fare con il dolore: non con l’equità, o con qualche utopia, né con i piatti di un’ipotetica bilancia da pareggiare: alla fine si riduceva tutto solo e soltanto al dolore”, sposato con un’insegnante di inglese, Mirella, donna che ama ma con la quale non ha rapporti intimi da sette mesi “ il loro matrimonio ruotava attorno ad un nucleo di silenzio cristallino e rispettoso, che per Colnaghi era lo specchio di ciò che doveva essere un legame”.

Giacomo Colnaghi fuma la pipa e se ne va in giro per Milano in bici o in tram, senza scorta. Gli piace trattenersi la sera in qualche bar di periferia per bere un bicchiere di vino e ascoltare storie di ferrovieri e di operai, o fare un salto nella libreria del caro amico Mario. La storia di Colnaghi si intreccia a quella di suo padre Ernesto, un operaio partigiano ucciso barbaramente dai fascisti quando Giacomo aveva solo pochi mesi. Fontana la scrive in corsivo, alternando le due vicende tra un capitolo e l’altro del libro.

I due Colnaghi si somigliano molto, le loro brevi esistenze sembrano legarsi e ritrovarsi, oltre che nello stesso tragico destino, nei medesimi ideali di giustizia e di solidarietà che l’umile operaio insegue attraverso la Resistenza, e il sostituto procuratore lottando contro l’eversione e la ferocia delle Brigate rosse.

Nelle note finali, Fontana scrive che per tratteggiare il personaggio di Giacomo Colnaghi si è ispirato alle figure di altri due magistrati assassinati: Emilio Alessandrini e Guido Galli. Leggendo il romanzo, io ho invece ritrovato nell’esperienza umana e professionale del protagonista le storie di Luigi Calabresi e di Giorgio Ambrosoli, eroi diversi ed uguali di una borghesia piccola, invisibile ed operosa alla quale questo libro vuole essere un generoso e commovente tributo. Per stoicismo, bontà d’animo e integrità morale, i due Colnaghi somigliano molto anche ai personaggi dei romanzi di Malamud, uomini spesso travagliati, perseguitati dalla malasorte, che combattono il male e le ingiustizie arroccandosi nella propria fede e nella rettitudine.

Morte di un uomo felice è una profonda riflessione sulla giustizia e sui suoi limiti. Un libro emozionante, scritto con uno stile sobrio, garbato e scorrevole che ci riporta ai classici della grande letteratura italiana del Novecento.

Angelo Cennamo

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LA GIOSTRA DEI CRICETI – Antonio Manzini

Antonio Manzini lo conosciamo bene: sceneggiatore e scrittore di romanzi gialli che nelle classifiche dei libri più venduti gareggiano ormai alla pari coi racconti siculi del maestro Camilleri, con i Bastardi di Pizzofalcone di De Giovanni, con la Milano da bere di Robecchi, e con i romanzi di altri specialisti di un genere, il noir, che da parecchi anni sta monopolizzando o quasi il mercato della narrativa italiana. Sellerio ha da poco ripubblicato un suo vecchio romanzo, edito la prima volta da Einaudi nel 2007, intitolato La giostra dei criceti. Siamo quasi agli esordi, Manzini non ha ancora dato alle stampe i primi capitoli della fortunata saga del vicequestore Rocco Schiavone, ma nella sua prosa asciutta, disadorna, cruda, ritmata, già si intravedono i primi bagliori di quell’ironia malinconica, quell’amaro disincanto che caratterizza la sua scrittura, e che ritroveremo anche nei libri successivi, quelli della definitiva consacrazione.

 La giostra dei criceti è la storia di una rapina organizzata da quattro amici di una periferia romana, una rapina sgangherata e finita male, anzi malissimo. René, Cencio, Franco e Cinese sembrano personaggi usciti dalle pagine di un romanzo di Pasolini, sono ragazzi di vita, la cellula malavitosa, improvvisata e sprovveduta di una gioventù marcia e senza speranza, che sopravvive ai margini di una società arida di valori e di senso della legalità. Il romanzo criminale dei quattro amici-nemici, nonostante tutto molto divertente e con dialoghi scritti in romanesco, va ad intrecciarsi a quello di un’organizzazione di alti vertici dello Stato – un dirigente dell’Inps, un ministro, un generale dell’esercito, burocrati e impiegati senza scrupoli  – che lavora in gran segreto ad un piano folle e surreale denominato “Anno Zero”. Un’operazione complessa e ben congegnata che punta a risolvere il problema delle pensioni alla radice: eliminando fisicamente i pensionati. Le due trame parallele, attraverso la narrazione magistrale di Manzini, danno corpo ad un romanzo tragicomico, veloce, avvincente e carico di suspance. Un libro pessimista, senza un lieto fine, lo spaccato di una società degradata e priva di sentimenti, di un’umanità insulsa, oscena e brutale “Siamo carne da cannone, aveva detto René. Era vero. Carne da cannone. Gente che muore senza un senso, senza un’utilità. Che ha vissuto senza sapere, e senza sapere se ne va“.

Manzini possiede il pregio degli scrittori di razza: sa coniugare l’alto con il basso, la poesia con la leggerezza, il dramma con la farsa. Manzini piace a tutti, scrive bene e vende tanti libri. Non è forse questo il sogno di ogni romanziere?

Angelo Cennamo

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LEVIATANO – Paul Auster

“Sei giorni fa un uomo si è fatto saltare in aria sul ciglio di una strada del Wisconsin del nord. Non ci sono testimoni, ma pare che fosse seduto sull’erba accanto alla macchina intento a costruire una bomba, quando questa gli è esplosa ‎fra le mani per sbaglio. Secondo i referti dei medici legali che sono stati appena diramati, l’uomo è morto sul colpo”.

L’incipit di Leviatano – romanzo di Paul Auster uscito nel 1992 e pubblicato in Italia dalla Einaudi  –  è di quelli che non si dimenticano. Un pugno nello stomaco che lascia il lettore senza fiato, attonito e incollato al libro nell’attesa di capirci di più. La vittima dell’esplosione è Benjamin Sachs: uno scrittore di successo, dal vissuto turbolento e avventuroso. Il primo a scoprire la sua identità è l’amico e collega Peter Aaron, il quale, dopo aver appreso la tragica notizia, decide di ricostruire, passo dopo passo, gli ultimi anni di quella vita sbandata, convulsa e misteriosa, che lui solo conosce. Ben e Peter sono legati da una lunga amicizia nata per caso in un gelido inverno dentro un bar di New York. La scena del loro primo incontro è un gioiello di tecnica narrativa, forse la parte più interessante dell’intero romanzo. In quel tempo lui e Ben sono due giovani scrittori spiantati in cerca di gloria, due sognatori come ne incontriamo tanti nella letteratura americana, dall’Arturo Bandini di Fante al “disperato, erotico, stomp”  Bukowski. Storie parallele che mano mano finiscono per intrecciarsi pericolosamente oltre il dovuto, oltre la soglia dell’adulterio della moglie di Ben, e oltre il naturale rifiuto della crudeltà. Il rapporto che lega Ben a Peter sembra impossibile da scalfire, nonostante tutto.

Leviatano è il titolo che Sachs ha scelto per il romanzo che ha iniziato a scrivere in una baracca del Vermont, lontano dal mondo, dal suo mondo, dopo una brutta convalescenza che lo ha trasformato, cambiato dentro, al punto da spingerlo a rimettere in discussione gli affetti più cari e le proprie ambizioni di scrittore. Il libro finirà per scriverlo Peter, l’unico depositario di una verità difficile da spiegare e forse poco credibile.

Leviatano è un libro ambizioso e intrigante –  ahimè con poca ironia – che affronta i temi del tradimento e del fallimento. Ma è soprattutto una carambola di eventi – incontri, incidenti, romanzi scritti e romanzi mai finiti – del tutto imprevedibili, governati unicamente dal caso. La vita di ciascuno è in totale balia del caso, scrive Paul Auster sulla copertina. E’ la cifra, questa, di tutta la sua produzione letteraria e questo libro non fa eccezione. L’impressione però è che questa volta Auster abbia voluto esagerare: la lunga sequenza di eventi fortunosi che sovrasta la storia di Benjamin, la ricerca affannosa, quasi maniacale, della “strana combinazione” che deve per forza legare ogni step della trama, finisce infatti per ostacolare quel naturale processo di compenetrazione tra lettore e personaggio che rende la narrazione più intrigante, e per allontanare la storia da una realtà possibile e ripetibile. L’eccesso di zelo, o forse l’azzardo, che separa un buon romanzo dal capolavoro.

Angelo Cennamo

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22.11.63 – Stephen King

Nel suo saggio, interessantissimo, sulla narrativa americana ( AmericanaMinimumfax editore)  – Luca Briasco divide gli scrittori in due categorie: gli status author – gli autori  che scrivono seguendo il proprio istinto, senza tenere conto delle mode e delle tendenze del momento – e i contract author,‎ quelli più attenti al marketing, che con i lettori stipulano un patto per assecondarne gusti e preferenze. Mi è venuta in mente questa distinzione, che Briasco nel suo libro formula per spiegare il dualismo tra Jonathan Franzen e David Foster Wallace, mentre leggevo uno dei romanzi più apprezzati di uno scrittore americano che, per chissà quale ragione, sbagliata, parte della critica continua a considerare minore rispetto alla nobile nomenclatura da Pulitzer. Lo scrittore è Stephen King, il romanzo è 22.11.63. Nella sua lunga carriera King di romanzi ne ha pubblicati più di 50, vendendo oltre 500 milioni di copie in tutto il mondo. Sono numeri impressionanti che non collimano probabilmente con l’idea e con la personalità del romanziere d’avanguardia, lo sperimentalista, lo status author esemplificato da Briasco nel suo manuale. King non ha la scrittura colta e rigogliosa di Philip Roth, né lo spessore filosofico di Don DeLillo, o l’introspezione romantica di Carol Joyce Oates; la sua prosa è ruvida come la moquette di un hotel fuori stagione, aspra come un sorso di whisky che ti brucia nella gola. King tuttavia possiede una qualità rara: sa evocare atmosfere e ambientazioni, talvolta surreali, che solo il  cinema riesce riprodurre con la stessa fedeltà e verosimiglianza. Non è un caso che dai suoi romanzi siano stati tratti diversi film di successo: It, Cujo, Il miglio verde, Shining, Le ali della libertà, Misery.

King è un costruttore di suspance più che di parole; le sue trame ipnotizzano i lettori alimentando una misteriosa empatia con l’autore. È l’empatia la cifra di King. Quella capacità fuori dal comune di sorprendere, turbare e incuriosire fino allo spasimo. Le sue storie sono squarci spazio-temporali che si rincorrono in un dedalo di suggestioni vibranti, l’apoteosi di un’immaginazione sempre fervida e inesauribile. King confeziona sogni. E quanti si  ostinano a considerare i suoi romanzi un sottoprodotto della cultura di massa, un intrattenimento leggero, farebbero bene a riflettere sulla complessità del mosaico che è al centro di ogni buona narrazione, oltre che sulla bellezza intrinseca della scrittura, importante sì, ma non sufficiente a fare di uno scrittore un grande scrittore. Non si può  conoscere a fondo l’America e la letteratura americana senza aver letto i romanzi di Stephen King, senza aver conosciuto quel suo modo favolistico di raccontare i nostri lati oscuri, il brivido dell’imprevisto, e quella sensazione di precarietà che non ci abbandona mai.

22.11.63 esce nel 2011. Non è uno dei soliti romanzi diabolici ai quali King ha abituato i suoi fan. Il libro racconta la storia di un tranquillo professore di inglese che insegna in un liceo di una cittadina del Maine. Il suo nome è Jake Epping, ma ve ne dimenticherete presto perché il protagonista, per le ragioni che spiegherò più avanti, assumerà fin da subito un’altra identità. Un giorno di inizio estate, infatti, Jake viene a conoscenza di un segreto che ha dell’incredibile. A rivelarglielo è Al, il gestore della tavola calda dove lui si trattiene spesso a pranzo con i colleghi del liceo. La dispensa del ristorante di Al nasconde un varco che conduce nel passato  “la buca del coniglio“. Pochi passi su una scala immaginaria e chi la percorre si ritrova nel 1958.

Non importa quante volte l’attraverserai: uscirai sempre sul piazzale di una fabbrica tessile di Lisbon Falls, ore 11.58 del 9 settembre 1958. E non importa quanto a lungo resti in quel passato: al ritorno, nel tuo presente saranno trascorsi due minuti. Sempre due minuti“. Jake è incredulo, ovviamente frastornato. Ma è qui che la storia entra nel vivo: Al chiede al suo amico di compiere una missione impossibile “Se mai hai voluto cambiare il mondo, questa è la tua occasione. Salva Kennedy. Salva suo fratello. Salva Martin Luther King. Ferma le rivolte razziali. E forse fermerai anche la guerra in Vietnam“. Il vecchio chef ci aveva già provato prima che il cancro consumasse le sue ultime forze e il tempo necessario per sopravvivere fino a quella tragica giornata di novembre, quando lo sconosciuto, fino ad allora, Lee Oswald mirò alla testa di JFK.
Jake accetta la sfida. Prende i risparmi di Al, i quaderni con gli appunti che il suo amico moribondo ha raccolto nelle precedenti incursioni oltre la buca, una patente falsa intestata ad un tale George Amberson, e parte per la sua seconda vita come un alieno per una galassia sconosciuta. “Ma il passato è inflessibile. Non vuole essere cambiato”.

22.11.63 è un romanzo lungo ed estenuante, con un impianto narrativo solido, ben strutturato, che si rifà alla tradizione popolare ottocentesca-dickensiana, e che ruota intorno a due vicende parallele: il drammatico attentato a John Kennedy, e la storia d’amore, molto commovente, tra il protagonista e una donna che non riesce a liberarsi dai fantasmi del suo passato. Un libro ricco di colpi di scena che ci spalanca gli occhi sul falso mito dell’irreversibile, scritto con leggerezza ed ironia da un maestro della letteratura contemporanea. Un viaggio folgorante, dal New England al Texas, attraverso la musica, i colori e i paesaggi dell’America rurale, bigotta e razzista degli anni ’60. Una sequela infinita di incontri e di misteriosi déjà-vu, con tanti personaggi, così uguali e così diversi, protagonisti e comparse insieme nel gigantesco affresco che King dipinge per rappresentare sentimenti e miserie di un’umanità sospesa nel tempo. L’amore, la morte, il destino.

Angelo Cennamo

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Il testamento di Colajanni (racconto completo)

La morte dell'avvocato Colajanni era costata 24 milioni di lire, tutti in banconote da centomila. Quando Davide Maestrelli - questo era il nome del killer - venne fermato dai carabinieri ad un posto di blocco nei pressi di Gioia Tauro, la borsa era ancora sul sedile anteriore. Maestrelli non oppose resistenza, ma confessò l'omicidio solo dopo un lungo e tormentato interrogatorio. In un primo momento, l'assassino riferì di non conoscere l'avvocato. Disse di avergli soltanto rubato l'auto, all'interno della quale aveva poi trovato, per puro caso, la borsa con il denaro. Una versione debole, poco verosimile. Nonostante tutto però Maestrelli riuscì ad evitare l'ergastolo. Abbandonò definitivamente il carcere di Opera nel novembre del 1999. Oggi credo lavori in una comunità di tossicodipendenti in provincia di Pisa. Agli inquirenti raccontò che fu contattato dall'avvocato tramite un suo cliente, tale Antonio Santomauro - il cui nome, per la verità, non mi dice nulla - e che Colajanni dovette faticare parecchio per convincerlo ad eseguire quell'incarico così speciale. Raccontò pure che la somma richiesta all'avvocato era di gran lunga inferiore a quella contenuta nella borsa: circa la metà. Colajanni dovette insistere affinché accettasse il doppio, perché la sua vita - avrebbe detto nel corso della trattativa - valeva molto di più dei quindici milioni di cui Maestrelli si sarebbe accontentato. In realtà Mimmo avrebbe preferito spararsi da solo. Ci provò una sera che eravamo andati tutti via dallo studio. Dopo aver fumato tre o quattro sigarette, si scolò un’intera bottiglia di Vodka. Tirò fuori dalla borsa la rivoltella che gli aveva procurato un suo vecchio conoscente, Gennaro Caravano - detto “pachialone” - se la puntò alla tempia, chiuse gli occhi, e premette il grilletto. Pensò di essere già morto quando si accorse che la sicura si era bloccata misteriosamente, impedendo così all'unico proiettile inserito nel caricatore di uscire dalla canna. Da allora non volle più riprovarci.
La sua uscita di scena l'avvocato volle curarla nei minimi dettagli. Intendo dire che non si limitò soltanto a scegliersi l'assassino e a pattuire con lui il prezzo del delitto, ma si premurò anche di programmare il futuro del suo studio legale attraverso una lunga lettera testamento che redasse in duplice copia. Una ce la fece trovare nel primo cassetto della scrivania, l'altra la consegnò al notaio Carmando di Torre Annunziata. Quella lettera, scritta di suo pugno e su carta intestata, era un vero capolavoro letterario, a metà strada tra una memoria difensiva e una sceneggiatura teatrale. Nessun altro documento, neppure fotografico, ha raccontato la personalità e la natura più intima di Mimmo Colajanni meglio di quelle poche righe. Per prima cosa, l'avvocato volle spiegare le ragioni del suo gesto, che a suo dire fu dettato dall'insostenibilità di una vita “troncata nella sua parte essenziale”, quella per cui diceva di essersi sempre battuto: ottenere la stima di chi lo aveva conosciuto e frequentato. La seconda parte del testo l'avvocato la dedicò invece ad ognuno dei suoi colleghi di studio. Tutti, compreso Brunella, l'ultima arrivata. Una sorta di pagellino nel quale si divertì a tracciare il profilo umano e professionale di ciascuno, evidenziando pregi e difetti come farebbe un maestro elementare con i suoi alunni. In cima a quell'elenco l'avvocato scrisse il nome della segretaria: Irene Monterisi. Mimmo la definì “una collaboratrice straordinaria, perno insostituibile dello studio e sua memoria storica. Confidente insuperabile e lavoratrice instancabile”. L'aveva conosciuta a Sorrento, nello studio del collega Pippo Marano. Mimmo rimase colpito dalla velocità con la quale quella ragazza magrolina e dalle mani affusolate riusciva a scrivere sotto dettatura, sia a macchina che a mano. E dai modi gentili che adoperava per ricevere ed intrattenere i clienti. Irene parlava correntemente l'inglese ed il francese, e se la cavava pure con il tedesco, essendo di madre berlinese. Dopo aver terminato le magistrali si iscrisse all'università. Ma alla fine del primo anno fu costretta ad abbandonare gli studi per mantenere i suoi fratelli, rimasti come lei orfani di entrambi i genitori. Per convincerla a lavorare nel suo studio, Mimmo le promise il triplo dello stipendio che le pagava l'avvocato Marano. In più, si offrì di pagare personalmente le spese mediche per le cure del fratello più piccolo, affetto da una malattia rara e poco conosciuta. Attenzioni che Irene meritò pienamente per le eccellenti doti organizzative che fecero di lei il vero dominus dello studio. Più che una segretaria, Irene era un avvocato aggiunto; aveva maturato un tale esperienza sul campo che, se solo avesse voluto, sarebbe stata in grado di gestire una causa da sola, dall'inizio alla fine, e di andare in aula a patrocinare. Nessuno se ne sarebbe accorto che non aveva studiato la legge.
Ben diverso fu il capitolo dedicato a Federico. Mimmo ne parlò come di “un ragazzo generoso e sensibile, prestato all'avvocatura (proprio così), ma sempre disponibile con chiunque avesse bisogno”. Federico era tra virgolette capitato nel suo studio per una promessa che l'avvocato aveva fatto a suo padre, Attilio, caro amico di infanzia e mancato collega. Più che l'adempimento di una promessa, l'assunzione di Federico Mimmo la definì un dovere morale. Dovere che però gli costò parecchio in termini di salute e di denaro. Lo stress nervoso che Mimmo accumulò per le sua bizzarra interpretazione della professione lo portò più di una volta a sfiorare l'infarto. Per colpa di Federico l'avvocato perse almeno tre cause facili facili, e fu costretto a risarcire di tasca sua numerosi clienti malcapitati. Effettivamente Gustavo, Maria, Federico De Cleva, fin dagli esordi, manifestò una scarsa inclinazione per la professione forense. E la sua sbadataggine in alcuni momenti rasentava la disabilità. Il lato forte del suo carattere era sicuramente la simpatia ed un innato senso dell'umorismo. Istintivo direi. Federico era capace di farti ridere nei momenti più impensabili anche con un semplice gesto, con la sola mimica facciale. Quando grazie ai suoi buoni uffici perdemmo la causa con una nota multinazionale americana, lui disse che lo aveva fatto apposta per non incrinare il patto atlantico. Solo una volta l'avvocato fu sul punto di mandarlo via sul serio, il giorno in cui smarrì un pacco di cambiali che lui raccontò di aver utilizzato come fiches per giocare a poker con gli amici.
Federico è stato per me come un fratello. Io e lui, insieme, abbiamo girato mezzo mondo divertendoci come matti. Non ci crederete ma una volta in Africa, nell'estate del '70, Federico mi salvò la vita. Davvero. Capitò durante un safari. Avevamo perso le coordinate del gruppo; cominciammo allora a seguire un sentiero che ci era stato indicato da un abitante del posto. Ad un tratto, mentre mie ero accovacciato per prendere una mappa dallo zaino, sentii alle mie spalle Federico fare un balzo. Mi voltai pensando che fosse inciampato o che volesse farmi uno dei suoi scherzi. Invece no: si era avventato su un pitone che stava per afferrarmi la caviglia. Estrassi immediatamente il coltello che mi ero portato dietro e glielo conficcai sulla testa. Al pitone. Dopo quella disavventura, la sera, al villaggio, gli organizzatori del safari ci festeggiarono come degli eroi e ci regalarono una nuova vacanza. Di quel pitone e della sua uccisione alla maniera di Indiana Jones ne parlarono tutti i giornali, anche qui in Italia. Federico fu addirittura ospitato in uno show televisivo e intervistato da un noto documentarista. Conservo ancora nel mio salotto la pelle viscida di quella bestia. Cinque anni dopo volli ricompensare Federico per il suo gesto eroico. Decisi di aiutarlo a ricomprare l'appartamento di via Foria che aveva perso in una sciagurata partita a poker, al casinò di Venezia. Una serata terribile. Con una misera doppia coppia di 10 il mio amico ebbe la brillante idea di aggiungere al piatto altri due milioni e mezzo di lire. Quando gli avversari scoprirono le carte, Fede rischiò il coma.
Brunella era stata una studentessa modello. Si era laureata a pieni voti, in tre anni e una sessione, con una tesi sulla cessazione degli effetti civili del matrimonio ( il divorzio). Mimmo nel suo pagellino la definì “degna di cotanto padre – Guido Masturso era stato presidente della Corte d'Appello di Firenze e autore di diverse pubblicazioni - e dotata di grande versatilità”. Indossava solo vestiti scuri, giacca e pantalone. Dava del lei a tutti e non amava intrattenersi a lungo con i colleghi. Anche perché il fidanzato, Gianluca, era gelosissimo. L'accompagnava tutte le mattine in studio e tornava a prenderla la sera, dopo le otto. Una volta Gianluca vide Brunella prendere un caffè con Federico, giù al bar di Tonino. Scherzavano. Federico, come al solito, faceva le imitazioni dei colleghi di studio. Gianluca attese che i due uscissero dal bar, e dopo aver allontanato la fidanzata con il braccio, sferrò un montante al viso di Fede stendendolo al suolo come una pera cotta. Da allora Federico evitò qualunque forma di contatto con Brunella. Anche in Tribunale. Anzi, ogni volta che lei gli si avvicinava, scappava con una scusa qualunque.
Per Giulia, “la figlia perduta”, Mimmo scrisse solo un mestissimo “omissis”.
Al sottoscritto, “il figlio maschio che non aveva mai avuto”, l'avvocato dedicò un profluvio di parole struggenti. Tra me e Mimmo c'era sicuramente un affetto speciale. Mimmo segui con molta dedizione il mio praticantato. E non solo quello. Era attento ad ogni dettaglio, anche nell'abbigliamento. Mi dava continuamente delle dritte sulla scelta delle giacche e delle cravatte. Mi voleva uguale a lui, e un po' ci riuscì. Amava scherzare e divertirsi, ma sul lavoro era intransigente. Molto. I primi mesi allo studio urlava in continuazione. Non ammetteva nessun errore. Tutto quello ho imparato lo devo a lui. Anzi, se devo dirla tutta, Mimmo mi ha insegnato anche quello che non ho mai saputo o capito della mia professione. La prima volta che andai in udienza da solo gli riferii che non seppi replicare a un'osservazione del giudice. Lui non trattenne la rabbia – Come sarebbe non hai detto niente? Un avvocato sa sempre cosa dire. Dovevi inventarti una cazzata qualunque. - Ecco, questo era Domenico Colajanni.
Un'ultima annotazione Mimmo volle riservarla agli altri colleghi del Foro di Napoli, a cominciare dal presidente dell'Ordine, Piero Corradi. - Caro Piero - questo l'incipit - è da molto tempo che volevo dirtelo: come avvocato non vali un cazzo, ma come uomo sei anche peggio. - Particolarmente significativo l'ultimo rigo - Vi diffido dal prendere in considerazione qualunque forma di commemorazione pubblica in mio onore all'interno del Palazzo di Giustizia. –
Così parlò il defunto Colajanni.
(Angelo Cennamo)

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Il Teatro di Sabbath è tra i quattro migliori libri di Philip Roth, con Pastorale Americana, Il Lamento di Portnoy e La Macchia Umana.

Philip Roth è il più grande scrittore vivente. Lo è per quello che scrive e per come lo scrive. Per la tecnica con la quale imbastisce le trame dei suoi romanzi. Per l’arguzia, il sarcasmo che adopera quando affronta i temi più scabrosi o dissacra i valori profondi della società americana. Per il cinismo che lo trattiene fuori dal racconto anche quando simula e dissimula se stesso nei ruoli che cuce per i protagonisti delle sue storie. Con il Teatro di Sabbath – romanzo del 1995 – Roth si consacra anche tra i più grandi scrittori di sesso.

Il sessantaquattrenne Mickey Sabbath è un ex burattinaio tormentato dai fantasmi del proprio passato: il fratello giovane morto in guerra, sua madre, la prima moglie fuggita chissà dove,  e l’amata Drenka, l’adultera con la quale ha sfogato per tredici anni tutta la sua depravazione sessuale “Con Drenka era come lanciare un sasso in uno stagno. Entravi, e le ondine si dispiegavano sinuose dal centro verso l’esterno finché l’intero stagno si ondulava e tremolava di luce”. Mickey Sabbath è un personaggio grottesco che sembra uscito dalla commedia dell’arte “un bugiardo totale, una canaglia, subdolo e disgustoso che si fa mantenere dalla moglie e va a letto con le bambine”. Un uomo senza scrupoli che conduce un’esistenza insensatamente fuori da ogni convenzione, senza scopo e senza armonia. Ma Mickey ne è consapevole e prova a farsene una ragione: “ho fallito perché non mi sono spinto abbastanza oltre! Ho fallito perché non sono andato fino in fondo.” In uno dei passaggi più straordinari del romanzo, l’amico Norman, che nella vita ha avuto più fortuna e successo di lui, scopre che Sabbath ha tentato di sedurre sua moglie e che nelle tasche dei pantaloni ha nascosto una mutandina di sua figlia. Lui, colto in flagrante, gli risponde così: “So che ti stupirò, Norman, ma oltre a tutte le altre cose che non ho, non ho neppure una teoria. Tu trabocchi di amabile comprensione progressista ma io scorro veloce lungo i marciapiedi della vita, sono un mucchio di macerie, e non possiedo nulla che possa interferire con una interpretazione obiettiva della merda.” E un vecchio disperato, Mickey. E solo l’autore del romanzo sembra provare per i suoi fallimenti una certa compassione:  “Caro lettore, non giudicare troppo duramente Sabbath: molte transazioni farsesche, illogiche e incomprensibili, sono classificabili grazie alle manie della lussuria.” Dopo una sequela di tragicomici disastri, nelle ultime pagine del libro, le più esilaranti, il protagonista, sull’orlo della follia, cerca in tutti modi di farla finita. Nel cimitero dove riposano i suoi familiari prova goffamente ad organizzare la propria sepoltura immaginando il giusto epitaffio: “Morris “Mickey” Sabbath, Amato Puttaniere, Seduttore, Sfruttatore di donne, Distruttore della morale, Corruttore della gioventù, Uxoricida, Suicida 1929 – 1994.” Ma è un altro fallimento, l’ennesimo. Il Teatro di Sabbath è tra i quattro migliori libri di Roth, con Pastorale Americana, Il Lamento di Portnoy e La Macchia Umana. Un romanzo superbo, impressionante per la qualità della scrittura e l’intensità della trama. Un concentrato di sentimenti forti e laceranti: l’amaro disincanto, la lussuria, la solitudine, e la comicità si fondono in una sublime mistura letteraria, in un capolavoro di rara e profonda introspezione che lascia senza fiato. Non si può morire senza aver letto Philip Roth. 

(Angelo Cennamo)       

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Il Cardellino - ovvero le avventure di Theo Decker di Donna Tartt,

Come riscrivere Oliver Twist e ambientarlo nell'America del 2000, tra musei, allibratori senza scrupoli e botteghe di antiquari.  Donna Tartt, autrice dalla penna lenta (un romanzo ogni 10 anni) e raffinata, Charles Dickens deve averlo amato abbastanza. Nel 2014 vince il premio Pulitzer con un romanzo di 900 pagine, dalla trama avvincente e molto originale che ruota intorno a un prezioso dipinto realizzato nel 1600 da un allievo di Rembrandt. Il Cardellino - ovvero le avventure di Theo Decker -  e' il più classico dei romanzi di formazione. Durante la visita a una galleria d'arte, un bambino perde sua madre per lo scoppio di una bomba. In un attimo quel luogo austero e consacrato alla bellezza si trasforma in un cimitero di corpi e di opere d'arte in parte trafugate.  E' il crocevia, l'anno zero, della futura esistenza di Theo, che da un visitatore moribondo riceve in dono un anello misterioso e il quadro che la madre gli stava mostrando poco prima dello scoppio. Theo si ritrova  da solo, senza genitori e senza casa. Viene ospitato da una ricca famiglia newyorchese fino a quando non ricompare il padre, precedentemente scappato non si sa dove, che lo porta con sé a Las Vegas dove vive con la nuova compagna. In California comincia il secondo tempo della vita di Theo. Conosce Boris, il ragazzino vagabondo di origini russe che diventerà il suo amico per la pelle e che ritroverà da adulto in una situazione decisiva del racconto. Boris è il Lucignolo di Pinocchio, uno sbandato che inizia Theo all'alcol e alla droga, costringendolo, più avanti nella storia, a commettere un crimine efferato. E il Cardellino? Theo e il quadro sono inseparabili. Quel dipinto lo fa sentire meno mortale, meno ordinario. E' il suo sostegno, una forma di rivalsa, di nutrimento e di resa dei conti. E' il pilastro che tiene in piedi la cattedrale. Theo lo nasconde dappertutto, anche nella bottega di antiquario di Hobie, il suo approdo finale, la sua vera casa, il luogo dove imparerà il mestiere di restauratore, preferendolo agli studi universitari, e dove conoscerà Pippa, la ragazzina scampata come lui a quel tragico attentato e che ha amato fin dal primo giorno. La vita di Theo è come un lungo film d’azione, ricco di suspance, intensità e di momenti tragici. Un’altalena di emozioni sulla quale il lettore rimane col fiato sospeso fino all’ultima frase. Il Cardellino è un grande romanzo d'amore. L'amore incompiuto di Theo per Pippa, l’amore per l'arte e la sua bellezza, e per quel meraviglioso, tormentato e imprevedibile peregrinare che è la nostra vita. Commoventi le ultime pagine, le più intimiste e autobiografiche del racconto. Il guizzo finale che fa di Donna Tartt una vera fuoriclasse della narrativa moderna.

(Angelo Cennamo) 

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Città in fiamme di Garth Risk Hallberg una finestra aperta sulla New York degli anni ’70.

Garth-Risk-Hallberg. Tenete a mente questo nome. Garth è un giovanotto americano di 36 anni, originario della Louisiana. Alto, fisico asciutto e volto da 110 e lode ad Harvard. Un bel giorno la casa editrice Konpf gli offre un anticipo di due milioni di dollari per scrivere il suo primo romanzo. Dopo sette anni di lavoro Garth consegna il manoscritto di City on fire, un librone di mille pagine che negli Stati Uniti diventa un vero e proprio caso letterario. Sentite cosa scrive di lui la temuta Michico Kakutani dalle colonne del NewYork Times: “Hallberg ha solo 36 anni, eppure è riuscito a scrivere un romanzo dall’ambizione travolgente che lascia con il cuore in gola”. Niente male da chi qualche anno prima aveva definito il Franzen de Le Correzioni  odioso, petulante e orribilmente egocentrico. Ma di cosa parla questo romanzo così discusso, osannato dalla critica di mezzo mondo e strapagato a scatola chiusa da un editore evidentemente con molto fiuto per gli affari e per i giovani talenti. Città in fiamme – nella versione italiana – è una finestra aperta sulla New York degli anni ’70. Una notte di capodanno a Central Park sparano a una ragazza non ancora maggiorenne di origini italiane. E’ l’evento intorno al quale ruotano più storie sullo sfondo di una metropoli sopraffatta dal degrado urbano, dalla corruzione e dalla droga. La relazione omosessuale tra l’aspirante scrittore Mercer e il musicista punk William, lo scapestrato rampollo di una ricca famiglia newyorkese; il matrimonio in crisi di Keith e Regan, la sorella di William costretta a difendere le sorti della Hamilton-Sweeney Company dalle mire espansionistiche di Amory Gould “Fratello Diabolico”; e il cupio dissolvi dei Post-Umanisti, la band punk-anarchica di Nicky Chaos pagata per seminare terrore e distruzione. Questo e molto altro al centro di un racconto corale, ben strutturato, scritto da un esordiente con la classe e lo stile di un veterano, intervallato da appunti dattiloscritti, immagini e scarabocchi vari, nel solco della tradizione postmodernista. Città in fiamme è quello che si dice il grande romanzo americano, come Pastorale Americana di Philip Roth, Underworld di Don Delillo, Infinite Jest di David Foster Wallace, Le Correzionidi Jonathan Franzen. E’ un romanzo moderno ma non postmoderno, sulla falsariga del genere dickensiano, termine abusato con il quale si è soliti più che altro escludere determinati libri da certe dinamiche narrative piuttosto che identificarli o catalogarli alla maniera di Charles Dickens. Chiedersi se Hallberg somigli più a Chabon, a Franzen, a Wallace o a nessuno dei tre, è un un’operazione nella quale è inutile addentrarsi. Hallberg somiglia solo ad Hallberg, e sarà questa la sua fortuna -

Angelo Cennamo

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Addio alle armi romanzo sulla diserzione e struggente storia d'amore.

Pare che un giorno Cesare Pavese abbia fatto leggere un libro ad una sua ex allieva di liceo perché comprendesse la differenza tra la letteratura americana e quella inglese. Il libro era Addio alle armi di Ernest Hemingway, l’allieva Fernanda Pivano. Di lì a poco la Pivano sarebbe diventata la traduttrice in italiano dei romanzi di Hemingway oltre che uno dei maggiori esperti di narrativa nord-americana.

A molti di voi sarà capitato di seguire il percorso di Fernanda Pivano, cioè di interessarvi, di approcciare la letteratura americana e di  innamorarvene, passando attraverso le opere del grande maestro di Oak Park - Illinois. Almeno per me è stato così. Il vecchio e il mare e I 49 racconti per cominciare, Fiesta, Per chi suona la campana a seguire. Il libro di cui però voglio parlarvi è lo stesso che Pavese regalò quel giorno alla sua giovane allieva. Pubblicato negli Stati Uniti nel marzo del 1929, in Italia Addio alle armi venne oscurato dal regime fascista perché metteva in cattiva luce l’esercito italiano minando uno dei valori più propagandati dalla dittatura mussoliniana: l’ardimento e la fedeltà alla patria. La storia raccontata da Hemingway infatti  culmina con la disfatta di Caporetto, che nella versione romanzata è molto diversa da quella tra virgolette edulcorata e opacizzata dei manuali scolastici. E’ sicuramente una delle pagine più drammatiche della storia italiana del primo novecento e nella trama del romanzo l’orrore, la paura e – perché no - la codardia di chi fuggiva dal fronte ci vengono descritti dalla penna di Hemingway con grande intensità e con squallido realismo. Ma  Addio alle armi non è soltanto un romanzo sulla diserzione: è soprattutto una struggente storia d’amore tra un tenente americano ferito dallo scoppio di una granata e un’infermiera inglese. L’amore e la guerra, nello sviluppo della trama, si intrecciano in modo inestricabile dando vita ad un vortice di sentimenti e di passioni che ha pochi precedenti nella letteratura mondiale. Il racconto è avvincente, ma dentro la fiction scorre lo straordinario reportage di un giornalista che vive sulla propria pelle un pezzo importante della storia d’Italia. L’opera è sincera e non indulge alla retorica dell’eroismo o alla banale idealizzazione patriottica. Distinguere l’Hemingway romanziere dal cronista o dal soldato al fronte non si può: verità e finzione si mescolano in un crogiolo di visioni e di suggestioni uniche. Ne viene fuori una narrazione vivida, di rara bellezza, sciorinata con stile sobrio, apparentemente disadorno: Hemingway descrive luoghi e personaggi senza usare una sola parola superflua, ma non omette nulla di quanto serva al lettore per sentirsi al centro della scena, avviluppato dall’atmosfera feroce e violenta delle battaglie e da quella erotico-sentimentale degli incontri furtivi tra il giovane Henry e miss Barkley. Un continuo perdersi per poi ritrovarsi in una grande avventura attraverso montagne, città, ospedali, laghi e strade sconosciute. Una corsa infinita e disperata verso la libertà.

Angelo Cennamo 

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